giovedì 23 dicembre 2010

7 Storia della nonna e del nipote.

C'era una volta una nonna che aveva un grosso guaio con il suo nipote più piccino. A letto quel bambino, non si capiva perché, ma non voleva andare. Dormiva dunque accoccolato assomigliando più ad una bestia che ad un cristiano. Il gatto di casa dormiva come lui sul nudo patimento della casa. Più volte la nonna aveva portato il piccino sopra il letto dopo che si era addormentato, ma lui in un gran sussulto si era svegliato e, piangendo come se lo avessero acciaccato, aveva fatto desistere la nonna dal riprovarci ancora.
Così andarono avanti le cose e il bimbo crebbe sempre nel suo modo strano di dormire, eppure crebbe sano, robusto e forte, e come tutti i bimbi della sua età intelligente.
La nonna, la cui età volgeva ormai all'ottantina, da molto tempo non aveva più alcun pensiero per quel nipote poiché a dire il vero, non considerava più una stranezza che quel bambino dormisse come i gatti.
Una notte si svegliò la nonna e avendo dimenticato il pitale fuori dell'uscio di casa, si alzò per andarlo a prendere e per far ciò dovette passare nella stanza del ragazzo.
Fu così che guardando senza intenzione alcuna, trovò il ragazzo nel letto addormentato.
Stranamente non provò nulla e andò per le sue faccende.
All'alba il ragazzo andò nei campi come sempre e tornato alla sera sua nonna gli domandò se ci fosse qualcosa di nuovo ed egli rispose:
"Quello che già sai"
"Intendi dire che ora dormi nel letto" Chiese la nonna.
"Sì - rispose il ragazzo - perché stanotte ti ho udita sprangare la porta e ripassare nella mia stanza."
Dopo un lungo silenzio il ragazzo disse:
"Sai quando ho capito che avrei dormito sul letto?
Quando ho compreso che non ti interessava più, che mi volevi bene così. Nipote strano per te non ero più, e il tuo cuore faceva uno con il mio nel non considerar come diversa o folle o peggio colpevole o solo da mutar questa mia necessità".
"Era una necessità?" chiese la nonna
"Sì, cos'altro credevi che fosse, forse un capriccio o un malanno?"
"Sì, così ho creduto a lungo" disse la nonna.
"Lo so voi genitori e voi maestri, dato che insegnate avendo in testa come deve essere un figlio o un allievo non riuscite neanche a riconoscere in colui che vi nasce in seno o vi è affidato, la sacra diversità che lo fa invero colui che doveva essere e sarà, pensando che quella cosa che lo rende a voi alieno sia solo un capriccio, un peccato, una mancanza di buona lena, un guaio.
Certo era una necessità affinché io accogliendo con grazia e umiltà nel mio cuore questa strana posizione che il mio corpo voleva e di cui abbisognava, aprissi con essa il mio cuore all'intera vita qual essa in me si voglia vivere e rappresentare senza che il giudizio, ahimè, morale ne adombrasse la sacralità del gioco".
"Stanotte tornerai?" chiese la nonna.
"Strano davvero è l'umano cuore! Nemmeno di una notte foss'anche solo quella, ti accontenteresti?"
"No, qui ti sbagli tu, che qualcosa anch'io l'ho imparato e non sono davvero più contenta se tu dormi qui o là.
Stanotte un angelo di Dio nel sonno mi ha parlato e mi ha detto: "Nonna, non amare di più il tuo piccino se ora lo troverai a letto. Non lo blandire come non avresti dovuto per questo spronarlo a cambiare o per questo maledire, che davvero nulla ha senso se non di per sé, per quel che muove nel cuore di ogni uomo, poiché, vedi, anche come dormi tu a noi angeli fa davvero tanto ridere.
Vedi, noi che siamo angeli dormiamo in piedi sulle nubi d'oro del mattino in quell'unico attimo in cui il cuore dell'uomo si desta dal sonno e l'ego astuto giunge a dire 'ecco son desto, ecco una nuova giornata tutta per me'.
In quel momento solo, noi sulle nubi dorate del mattino chiudiamo gli occhi al sonno perché Dio così vuole affinché noi non ci intromettiamo nel gioco dell'umano potere e dell'umano inganno.
E poi dopo che quel comando che getta nell'illusione l'intero giorno è stato dato, ecco noi apriamo gli occhi e torniamo a fare il nostro dovere all'insaputa dell'ego che si è imposto e s'è dettato re delle azioni tutte, e delle dolci astuzie della vita."

sabato 18 dicembre 2010

6 Storia del mulo che credeva d'essere un cavallo.

Che cos'è il male?
C'era una volta un mulo che credeva d'essere un cavallo, tanto e fiero e bello era il suo aspetto, non fosse stato che per gli zoccoli che ahimè, eran zoccoli di mulo e così i garretti poco sottili e poco nobili e gentili.
In questo suo credersi un cavallo un giorno un dubbio in verità lo colse, mentre abbeverandosi a tarda sera dopo i lavori nei campi, si vide accanto il cavallo del padrone.
Non gli sembrava d'essere poi tanto diverso ma qualcosa che non capiva lo tormentava.
Risolse il problema pensando che forse quel cavallo aveva qualche difetto e sicuramente non era in salute ché il fattore lo faceva faticare poco e lo strigliava molto.
Doveva dunque essere malato, pensò, proprio uno strano cavallo.
Il dubbio così cadde ma invecchiando e vedendo altri cavalli per la strada, ecco che si creò nella sua testa una strana ossessione: "Ho paura, che son vecchio ormai e alla fine dei miei anni, di morire, e che quelli di là quando arrivo per via di questi miei garretti mi prendan per un mulo, che da un po' di tempo mi è venuta quest'idea, avendo visto un giorno un animale che mai avevo visto prima e che tutto mi assomigliava, vicino ad un uomo che parlando con il mio padrone diceva - il mio mulo, il mio mulo -.
Ecco quale triste sorte è mai la mia che per questi zoccoli appena un po' pesanti e questi garretti meno sottili, io nell'aldilà non sia messo, in una deliziosa stalla a riposare, sì, ma fra dei muli, io che sono un cavallo".
L'unico male che io conosca è non conoscere ciò che si è realmente. Questo l'unico peccato padre di tutti i pianti e i guai del mondo.

sabato 11 dicembre 2010

5 Storia del cuore come specchio

C'era una volta un bambino nato cieco a cui i genitori avevano insegnato a render grazie del suo difetto sempre e ovunque, a render grazie di ciò che invero lui in cuor suo considerava una disgrazia, ma che, come dicevano i genitori, doveva da lui stesso invece essere considerata una grazia e una dolce distinzione della vita, una prova ardua ma per questo gradita della vita.
Passò il tempo e il bambino crebbe e fu un ragazzo dal cuore triste e torvo che di nascosto ovviamente da tutti, doveva nutrire i suoi peccaminosi pensieri, nascondendoli, per paura che qualcuno anche senza che lui li esprimesse a parole, sedendosi a lui accanto, li sentisse agitarsi nella sua mente e palpitare nel suo povero cuore.
I genitori facevano di tutto per renderlo felice non perdendo occasione per fargli notare come la sua diversità fosse lode a Dio perché sempre foriera di una qualche possibilità a distinguersi dagli altri, foss'anche solo per essere più riflessivo e solitario dei suoi compagni che, ignari della vita, schiamazzavano per l'intero giorno nei vicini cortili. Ed egli accoglieva queste parole come si accoglie un pugno in petto, con la pesantezza di una malanno, di un accidente, di una maledizione, che diceva e pensava: "Me ne importa molto di stare qui a sentire mia madre che cucendo racconta fiabe per me, io vorrei leggere cose diverse, non so neanche quanti e quali libri ci sono al mondo, per di più invece vorrei proprio correre e vociare come sento fanno i ragazzi della mia età".
Così, in questo odio fosco verso se stesso e la propria disgrazia, si apriva il suo cuore alla vita.
Era una stupenda giornata di aprile e lui se ne stava seduto come sempre nelle giornate più calde, contro il muro di casa. Stava sentendo il suo cuore parlare le solite parole di odio e di disperazione, quando in quel frastuono minaccioso sentì un passero cinguettare da un vicino ramo. Seguì con l'udito il suono e realizzò che doveva essere piccino e a pochi passi e sui rami più bassi, che ben distintamente lo ascoltava. Si lasciò rapire da quel canto inconsueto e dolce e chiuse la porta al cuore, foriero di tutti quei pensieri. Aprì tutto se stesso a quel canto dolce, a quel suono che sembrava più armonioso dell'organo che sempre sentiva in chiesa.
Non seppe come e quanto tempo passò perché d'un tratto, come se avesse dormito, si destò al nuovo rumore che lo distrasse ed era il rumore di un carro che passava sulla strada. Gli veniva appresso un contadino che bestemmiava a gran voce la sua sorte.
Aprì spaventato il ragazzo la porta al proprio cuore che gli era sembrato per un lungo tempo d'esser fuggito da sé, uscito da se stesso e in un mondo strano davvero d'essere finito. Aprì la porta al cuore per riprendere le antiche fantasie e gli antichi lamenti e le proprie bestemmie che gli ricordavano tanto quelle dell'uomo del carro, ma non riusciva a sentire altro che quell'uccello cantare e cantare.
Si spaventò e si drizzò come ad essere più attento, e si toccò anche il volto e le mani per sentire se ancora fossero vivi poiché sentiva solo più cantare e cantare quell'uccello. Allora corse in avanti come a fuggire da quella maledizione, da quell'incantesimo e battè la testa contro l'albero su cui era l'uccello. Volò via questo spaventato e zitto. E tornò d'un tratto il silenzio.
"Che mi succede?" domandò il ragazzo.
E sentì il cuore rispondere con calma:
"Hai sognato d'essere un uccello che cantava e così io ho seguito il tuo sogno, ché sempre il cuore segue i sogni degli uomini".
"E prima?" chiese il ragazzo.
"Prima sognavi e pretendevi d'essere un ragazzino sfortunato e triste e assai adirato con se stesso e con la vita. Volevi essere la maledizione di te stesso ed io con te maledicevo."
"Come - disse il ragazzo - il cuore forse lo comando io?"
"No non è proprio così, che il cuore certo non ti appartiene, ma tu puoi riempirlo a comando di cosa vuoi, puoi tu farlo adirare ed egli s'adira o lasciarlo nella pace ed allora così sarà".
"Ma io credevo il contrario e che fossi tu a parlarmi con tutto quell'odio nel buio dei miei giorni".
"Davvero hai potuto credere questo, e perché?"
"Perché le parole e l'impeto mi sembrava proprio di lì provenissero e sgorgassero".
"Non è affatto così - riprese il cuore - che il cuore è il centro del divino e mai da tali pensieri può essere colpito, ma l'uomo che nella propria mente ripone tutta la fiducia, agita questa in mille congetture e organizza con essa mille guai e mille pretese, che la mente mai sazia si lancia in tranelli sopraffini e sempre richiede e aizza l'intervento del cuore. Il cuore pare assecondare, poiché non può essendo puro amore opporre una lotta, come Cristo si lascia dai chiodi trapassare e trafiggere e sputare.
Ma il cuore non è corruttibile e resta solo uno specchio fedele di ciò che accade nella mente dell'uomo, cosicché questi guardandosi anche nelle sue profonde meditazioni, il cuore, non s'accorge dell'inganno e vi vede riflesso tutto il proprio volere, il proprio piacere e il proprio entusiasmo e le proprie brame, e dunque pensa che veramente lì tutte quelle cose risiedano, come tu hai creduto lì risedesse tutto quell'odio. Così ognuno piange di se stesso e pregando e infliggendosi dure penitenze, cerca di "mutare il cuore".
Sciocco e stolto colui che cade in questo tranello poiché non sa che il cuore è uno, puro e indivisibile e intoccabile e riflette solo, come uno specchio terso, ciò che la mente dell'uomo gli manda.
Che cosa mutare e chi?"

martedì 30 novembre 2010

4 Storia del re con gli uccelli rapaci.

C'era una volta un re che aveva due fratelli. Entrambi erano assai abili con le armi e col potere, entrambi protetti e amati dal re.
Ma sorse un tempo in cui, per i meriti dell'uno e dell'altro, cominciarono dispute e insidie, e lo stesso re fu accecato dalla preferenza per uno dei suoi fratelli.
Le cose non andavano più bene come prima, e non solo a palazzo, ma per tutta l'intera regione si sentiva l'eco di questa discordia profonda che minava la stabilità e la sicurezza dell'intero paese.
Giunse un giorno a palazzo uno strano uomo ritenuto un guaritore, effettivamente non amato dal popolo né tanto meno dal re che ne aveva sentito parlare come di una persona poco affidabile, dalle strane pratiche e che era persino accusato di scorrerie con alcuni suoi bravacci nelle terre più ostili al re. Quest'uomo era assai rozzo alla vista, vestiva in modo pulito ma assai logoro e povero e portava con sé un sacco in cui, si diceva, tenesse tutti i suoi intrugli e le sue erbe con cui guariva, ma guariva solo alcuni non tutte le persone che lo avvicinavano.
Era così addolorato il re che di nascosto dallo stesso cappellano e dal primo ministro, fece chiamare il guaritore poiché pensava: "Solo lui a questo mondo, forse, può fare qualcosa per me e per i miei fratelli".
Arrivato l'uomo alla presenza del re questi gli espose il caso ma in così tanti e tali e minuziosi particolari che non si capiva più se il re voleva un consiglio per guarire o se preferiva con quel modo di raccontare ciò che i suoi fratelli gli facevano soffrire, una qualche punizione per questi e un rafforzamento per sé. Si accorse semplicemente di questo il re mentre ormai da alcune ore stava ancora parlando, che gli occhi del guaritore non avevano cessato di guardarlo e avevano assunto fin dal primo momento un'aria dolce e triste insieme senza opposizione e, pareva al re, anche senza il minimo interesse a giudicare qualcosa che venisse detto. Così si accorse il re che non poteva che ad un certo punto tacere, poiché gli sembrava di aver interamente vuotato il cuore e che le parole a fiumi pronunciate stipassero interamente la stanza come se aleggiassero tutte intorno quasi togliendo il respiro al re, ma avendo lasciato un grande vuoto di luce intorno al guaritore.
"Che cosa ti ha interrotto - chiese il guaritore al re - che cosa?"
"Ma io non saprei dire, ma mi pare che tutte le parole che ho espresso siano uscite come uccelli rapaci dal mio cuore e abbiano cominciato a volteggiare qui intorno, togliendo l'aria e il respiro e lasciando una strana oppressione al mio cuore".
"Ah! - disse l'uomo - così hai compreso che dentro al tuo cuore c'erano uccelli rapaci".
"Sì, ma cosa vuol dire questo?"
"L'uccello rapace è colui che tutto ghermisce con la forza e la violenza".
"Va bene, questo me lo ero immaginato, ma cosa centra questo con me e con i miei fratelli?"
"Il problema che tu hai invero non lo hai con i tuoi fratelli ma con ciò che essi rappresentano di te e che tu non approvi e vuoi combattere, per questo come aggredisci loro fuori, ogni volta che lo fai, l'uccello rapace del tuo cuore aguzza i suoi artigli e fa sanguinare il cuore".
"Io continuo a non capire cosa vuoi dire e chi sono gli uccelli rapaci e cosa voglio io da te e perché infine ti ho chiamato non capisco più".
"Meno male, un vuoto, uno spazio cui io posso appigliarmi, cui la vita può aggrapparsi per farsi sentire e riprendere a dominare il tuo cuore.
Un vuoto, una domanda, un dubbio senza risposta. Lascia che questo spazio si dilati e si espanda fino a coprire tutto il tuo cuore, lascia che ora che le domande frammiste alle intenzioni che sono uscite, lascino in pace il tuo cuore e su di esso si cali il dubbio, il punto interrogativo senza risposta alcuna e capirai".
"E tu credi d'essere un guaritore - riprese il re - certamente io non sono colui che lo può dimostrare".
"Ti sbagli di grosso poiché non sono io che guarisco, e se di me si dice questo cadono tutti in errore, che guarisce solo colui che colpito dalla nullità delle proprie presunzioni e delle proprie aspettative, di colpo si ferma e, sperso in un deserto doloroso, non trova più appigli, né perché, né per come, né tantomeno risposte antiche o nuove e comincia a riposare in questo dolce e greve silenzio. Tu prova, passerò di qui tra pochi giorni e solo vedendo il tuo sguardo capirò."
Si infuriò il re a quelle parole congedò il guaritore tornando con nuova risolutezza alle sue faccende. Ma tutto ciò cui voleva dare inizio non gli pareva più avesse un senso e si sentiva semplicemente come un sasso sul fondo del mare in balia d'ogni cosa e d'ogni astuzia della vita.
Questo lo faceva soffrire molto e maledisse l'incontro con il guaritore.
Ma passati pochi giorni un mattino si svegliò il re con strani occhi buoni e dolci e disse "non so più chi sono".

3 Luomo che voleva visitare tutto il mondo

"L'amore, solo l'amore può questo null'altro, esso muove tutto esso solo è.
Ma è una lanterna nascosta nel cuore che trovò un uomo un giorno che si perse per la sua testardaggine in un meandro sconosciuto della terra.
Veniva da lontano quell'uomo e voleva a tutti i costi visitare le terre e i mari e i fiumi e i deserti di tutto il mondo poiché diceva: "Come faccio a morire, che questa è l'unica cosa certa, come farò a morire senza aver conosciuto il mondo?"
Iniziò il suo viaggio assieme a quattro amici.
Il primo presto si stancò, che pesante era il viaggio e sempre a camminare, per poi riposare sotto le stelle o al riparo dalla pioggia sotto le rocce arse o nelle crepe profonde della terra, e ben presto dunque si stancò poiché credeva che tutto fosse più divertente e più bello, diversamente, insomma se l'era immaginato.
Così accadde che il secondo preso da troppo impeto nel seguire il cammino e temendo di non farcela, cadde e si spezzò una gamba, che molto malamente era ruzzolato e si temette anche per la sua vita, tanto che lo si lasciò in un convento di frati, sperduto sopra i monti.
E il terzo era assai arrogante che tutto diceva di conoscere e già di sapere, così che più nulla guardava e sopratutto niente di ciò che stava cercando egli trovava. Tutti eguali in fondo erano i posti e i luoghi, che la verde collina cedeva il passo alla sassosa montagna, e ai ghiacciai perenni e da questi si ridiscendeva al mare e poi da questo a lande deserte di sabbia ma poi di nuovo tutto ricominciava e in fondo agli occhi colmi di quell'uomo gretto e dal cuore chiuso nella sua boriosa sapienza, nulla appariva mai nuovo. Si fermò così costui molto addolorato ma, più che addolorato, direi superbamente sprezzante di tutto ciò che aveva veduto, dicendo: "Davvero non mi era nuovo il mondo, potevo restare dov'ero che dal mio castello pieno di libri tutto potevo sapere e immaginare e forse anche di più e meglio".
Così avvenne che il quarto un giorno mentre mangiava la sua zuppa, dicesse: "Amico, sono tanti anni ormai che vaghiamo ed io non ricordo più perché ho iniziato questo viaggio. A volte quando la notte io non dormo, che da un po' di tempo il sonno mi fa difetto, poiché triste e greve il mio cuore batte nel petto, di notte ti dicevo, me lo chiedo, e invero non so rispondermi se nonché per noia partii quel giorno di tanti anni or sono e, a dire il vero, la noia ancora, e di nuovo mi attanaglia. Dunque voglio tornare dove ero, dove sono nato che tutti mi conoscono e mi sono molto mancati poiché forse non li ho saputi conoscere ed apprezzare".
"Come vuoi tu, mio buon amico, qui ti lascio anche se un po' mi dispiace poiché alla tua cara compagnia ero ormai avvezzo, ma vedi se io devo dirti per che cosa partii io non so spiegare, partii perché il cuore me lo disse e le gambe lo seguirono, e gli occhi e le narici e ogni parte di me, come un bimbo ubbidiente, a quel volere si sottomise. A dire il vero quanto più ci penso sento che non so perché, né cosa mai cercai e se qualcosa cerco; che annoiato io non ero, né nei guai, e che volevo a tutti i costi conoscere il mondo ma non so perché. Quel giorno una voce parlò al mio cuore ed io docilmente la seguii."
"Una voce - chiese l'amico - e cosa disse quella voce?"
"A dire il vero mi pare di ricordare che disse solamente "seguimi e troverai."
"Io non so dirti altro ma il mio stupore è ancora adesso tale che davvero non so se sono sciocco o pazzo. Parto domani all'alba, abbi cura di te mio buon amico io vado e dove e per cosa invero non lo so, ma sento che così deve essere la vita."
Dormì tutta la notte il quinto uomo e al mattino prima del far del sole col suo bagaglio tutto solo partì. Sentì dapprima un gran gelo nel cuore che solo era e nemmeno una parola poteva dire ed udire. Ma presto il suo cuore si scaldò. Di colpo, d'un tratto, tutto ciò che reggeva cadde come una tempesta abbattutasi su di un albero fa cadere ogni foglia e solo il tronco ben robusto resta a terra saldo.
Tutto cadde e l'uomo guardando l'orizzonte disse: "Ho trovato, ho trovato ciò che muove il mondo, questo caldo, questo calore che ho nel cuore."

lunedì 22 novembre 2010

2 Storia del vecchio con le piante

C'era una volta un uomo di sapienza, un dotto direste voi, che si dilettava da anni, e ormai lui di anni ne aveva che bianche erano le sue tempie scarne e lunga la sua barba candida, che si dilettava dicevamo, a studiar le piante. Dal tempo più remoto che potesse ricordare, forse fin da quando ancora piccolo, lui sedeva a giocare nel prato, fu incuriosito dalla stragrande quantità di piante e fiori, e in lui si fece strada il bisogno di dare un nome, un'identità, ad ogni fiore, ad ogni stelo verde, ad ogni arbusto e pianta che popolasse il suo paese. Fu così che iniziò e passò nella gioia delle continue scoperte e delle lunghe ore di studio, tutti i suoi anni senza altro mai fare e senza altro che lo interessasse.

Quel giorno, dopo molto tempo, stava cercando di classificare una pianticella esile e carina che per caso aveva trovato in una passeggiata lungo il fiume e che mai invero gli sembrava di aver visto. Prese la terra insieme ad essa, ché le radici non si spezzassero, e la portò con sé nel suo amato laboratorio. Si accinse subito a guardarla e a confrontarla e quasi subito si rese conto che, non riusciva a capire come, ma per vari aspetti, apparteneva quella pianticella almeno a quattro specie e dunque non apparteneva a nessuna di quelle che aveva scoperto. Questo non gli era mai successo.

Decise di lasciarla lì e di riposare, ché ormai faceva buio e gli occhi non erano più quelli di una volta.

Uscì, e al caldo tepore che emanava il muro della casa, accostò il dorso curvo per il tanto studiare e chiuse gli occhi come a cercar di capire e di ricordare. S'addormentò e gli apparvero in sogno tutte le piantine che disordinatamente si frammischiavano e saltavano l'una nella famiglia dell'altra e facevano un gran putiferio, rovinando così il suo lavoro di anni. Allora in sogno, concitato, sgridò le pianticelle e disse loro di avere pietà di lui e di tornare buone, buone nei loro archivi, nei loro fogli ben delimitati e così preziosamente descrittivi delle loro proprietà ed intrinseche costituzioni.

Si affacciò allora davanti a tutte quell'ultima piantina che aveva raccolto e disse: "Sono io la causa di tutto questo trambusto e di questo disordine che ti disorienta ma, vedi, da tempo aspettavo che tu mi cogliessi perché potessi venire qui a dire a queste piante che non sono ciò che tu hai detto loro".

E mentre diceva questo, un bagliore la percorse tutta e illuminò anche le altre piante e il vecchio vide, come dire, l'anima di ogni pianta, come se qualcosa le avesse rese trasparenti e si vedesse dentro come esse erano, e che le animava. E con stupore il vecchio vide in ognuna la stessa, stessa essenza, che non avrebbe saputo spiegar che fosse e a che cosa assomigliasse.

Si svegliò di soprassalto con gli occhi dolci e sereni come mai aveva avuto, si addentrò quietamente nella casa e con gesti lenti e delicati prese tutte quelle piantine e le mescolò sorridendo.

Lo trovarono felice tra le sue piante molti giorni dopo e sembrava, dicevano tutti, diventato scemo per il troppo studio e la troppa solitudine perché mormorava di continuo: "Tutte, sono tutte eguali; che sciocco io a correr dietro alla loro diversità".

domenica 21 novembre 2010

1 Storia del re del cavaliere e del destriero.

C'era una volta un re che aveva un debole cavaliere e un fiero destriero.
Quel re voleva fare di quel cavaliere un buon cavaliere allenandolo su quel cavallo, giacchè il cavallo, pur essendo solo un cavallo, era più furbo, più arguto e meno mal destro del cavaliere.
Affidò allora il cavaliere a quel destriero perchè questi gli trasmigrasse la gloria e la bellezza, la focosità e la forza, l'allegria e la baldanza.
Ma, parve al cavaliere, che il cavallo fosse da domare.
Così passò tutto il tempo concessogli dal re, per far rispettare il passo al cavallo che a stento tratteneva i suoi calci e le sue brame, sognando boschi e radure e corse a perdifiato tra i ranunculi del prato, lungo il fiume.
Giunto che fu il giorno convenuto, il mesto cavaliere si presentò al re, portandosi dietro un destriero stanco ed acciaccato, quasi cieco a forza di guardare i piccoli passi del cavaliere, e con la schiuma alla bocca per il desiderio da mordere insieme alla briglia.
Disse il re: "Chi ha ridotto così il mio cavallo?"
"Io - disse fiero il cavaliere - gli ho insegnato invero come stare al mondo."

Commento: Voi sapete solo domare il cavallo che vi è stato dato, per farlo stare al mondo come reputate sia giusto che un "buon" cavallo, stia.
Sviluppate a volte un odio furente nei confronti del cavallo che guidate, perchè vorreste piegarlo a fare ciò che voi stimate "normale" un cavallo debba fare.
Ma, in verità, il cavallo e il cavaliere sono della stessa stoffa e se il cavaliere tiraneggia il suo destriere, questi lo conduce per campi pericolosi e luoghi impervi, su dirupi scoscesi e spaventosi e tra boschi fitti d'ombre e di paure, pochè non c'è sussulto che scuota il cavallo che non si ripercuota sul cavaliere.

Le storie e le metafore di un'Amica


Ormai sono molti gli anni trascorsi dal mio primo incontro con questa amica, ricordo il luogo dell'incontro e non più la data, ma sicuramente una trentina ne sono passati.
Lei ha imparato a rilassarsi, a fare silenzio e a tacitare il turbinio del pensare.
Una sorta di voce che lei dice proveniente dal cuore, si è manifestata e così ha iniziato a scrivere ciò che sentiva.
Nel silenzio e in un preciso atteggiamento passivo di ascolto, ha lasciato che tale sua dimensione interiore inconscia si esprimesse.
Molti dei contenuti prodotti erano metafore e storie
Ho letto man mano, quel che veniva scritto e ne sono rimasto molto interessato per la ricchezza di contenuto e significato che le storie esprimevano.
Non sempre le metafore che leggevo erano per me di facile comprensione, anche perchè, a volte, riguardavano le dinamiche personali e storiche della sua vita ma da diverse storie ho tratto insegnamento, consolazione e un notevole allargamento dell’orizzonte interpretativo della realtà di vita.
Credo che sia ingiusto tenere soltanto per me tutto il materiale che ho raccolto; così, dopo averle chiesto autorizzazione, l’ho fotocopiato e regalato agli amici; ora decido di pubblicarlo, una storia alla volta sul blog.
Colui che vi accede tragga, se trova, quel che gli serve.

mercoledì 17 novembre 2010

Commiato dal Centro Italiano di Ipnosi Clinica e Sperimentale (CIICS)

NATALE 2009

Cari colleghi e amici,

il tempo corre senza sosta e sono trascorsi ormai trent’anni da quando con l’amico Mitola mi incontrai con il prof. Granone per proporgli la costituzione di un’associazione che fu poi formalizzata alla presenza di un notaio e con la partecipazione di altri colleghi nel marzo del 1979 con il nome di Centro di Ipnosi Clinica e sperimentale (CICS).

Da allora molte cose si sono fatte, molte cose sono cambiate e tanti allievi sono transitati nella Scuola che subito si realizzò nell’ambito dell’Associazione.

All’inizio l’insegnamento era soltanto rivolto a medici, psicologi e dentisti ed aveva un’unica sede poi, rendendoci consapevoli di quanto la conoscenza dei dinamismi ipnotici potesse essere di grande utilità nell’attività di anche altri operatori sanitari, l’insegnamento è stato indirizzato anche a questi.

Oggi la Scuola ha una grande struttura riconosciuta e accreditata sia a livello nazionale sia a livello internazionale e ciò è dovuto all’impegno serio profuso tanto dal prof. Granone fin quando ha abbandonato la dimensione terrena, quanto dal sottoscritto e da tutti i colleghi che hanno fatto parte del corpo docenti.

Il tempo corre senza sosta, così ho detto, e le forme mutano, le convinzioni evolvono e possono nascere divergenze e dissapori fra colleghi difficilmente conciliabili e questo è quanto in realtà è successo a me.

Come alcuni di voi sapranno ho maturato la decisione di rinunciare a ogni incarico all’interno dell’Associazione e ad ogni insegnamento nella Scuola in quanto la mia concezione dell’ipnosi e il modo di impiegarne i dinamismi nella comunicazione e nella terapia con il mio orientarmi agli aspetti della coscienza e dello spirito, poco si accordavano ormai con la concezione di diversi colleghi tanto da creare disorientamento e confusione fra gli allievi.

Con la presente intendo salutarvi e ringraziarvi per il contributo che ognuno di voi, nell’avermi incontrato nella Scuola, mi ha fornito nel crescere le mie esperienze con l’illusione di aver fornito anch’io a voi qualche stimolo di conoscenza.

Se fosse di vostro interesse contattarmi sappiate che è possibile farlo attraverso il sito: www.tironegiuseppe.it o attraverso la mail con la quale sto scrivendo; inoltre se qualcuno fosse interessato al mio modo di concepire l’ipnosi anche in psicoterapia ne può trovare un condensato nel libro: Il potere della parola nella relazione d’aiuto psicologico ed Psiche (To). Sempre tramite la Psiche è uscito da qualche giorno il mio ultimo libro: Occuparsi di sé e del Sé fra Corpo, Mente e Anima dove vengono affrontate problematiche relative anche alla dimensione spirituale.

Buon Natale a tutti e che il nuovo anno “0” sia foriero di sempre maggiori accattivanti notizie.

Con cordialità

G.Tirone Socio fondatore cics