giovedì 23 dicembre 2010

7 Storia della nonna e del nipote.

C'era una volta una nonna che aveva un grosso guaio con il suo nipote più piccino. A letto quel bambino, non si capiva perché, ma non voleva andare. Dormiva dunque accoccolato assomigliando più ad una bestia che ad un cristiano. Il gatto di casa dormiva come lui sul nudo patimento della casa. Più volte la nonna aveva portato il piccino sopra il letto dopo che si era addormentato, ma lui in un gran sussulto si era svegliato e, piangendo come se lo avessero acciaccato, aveva fatto desistere la nonna dal riprovarci ancora.
Così andarono avanti le cose e il bimbo crebbe sempre nel suo modo strano di dormire, eppure crebbe sano, robusto e forte, e come tutti i bimbi della sua età intelligente.
La nonna, la cui età volgeva ormai all'ottantina, da molto tempo non aveva più alcun pensiero per quel nipote poiché a dire il vero, non considerava più una stranezza che quel bambino dormisse come i gatti.
Una notte si svegliò la nonna e avendo dimenticato il pitale fuori dell'uscio di casa, si alzò per andarlo a prendere e per far ciò dovette passare nella stanza del ragazzo.
Fu così che guardando senza intenzione alcuna, trovò il ragazzo nel letto addormentato.
Stranamente non provò nulla e andò per le sue faccende.
All'alba il ragazzo andò nei campi come sempre e tornato alla sera sua nonna gli domandò se ci fosse qualcosa di nuovo ed egli rispose:
"Quello che già sai"
"Intendi dire che ora dormi nel letto" Chiese la nonna.
"Sì - rispose il ragazzo - perché stanotte ti ho udita sprangare la porta e ripassare nella mia stanza."
Dopo un lungo silenzio il ragazzo disse:
"Sai quando ho capito che avrei dormito sul letto?
Quando ho compreso che non ti interessava più, che mi volevi bene così. Nipote strano per te non ero più, e il tuo cuore faceva uno con il mio nel non considerar come diversa o folle o peggio colpevole o solo da mutar questa mia necessità".
"Era una necessità?" chiese la nonna
"Sì, cos'altro credevi che fosse, forse un capriccio o un malanno?"
"Sì, così ho creduto a lungo" disse la nonna.
"Lo so voi genitori e voi maestri, dato che insegnate avendo in testa come deve essere un figlio o un allievo non riuscite neanche a riconoscere in colui che vi nasce in seno o vi è affidato, la sacra diversità che lo fa invero colui che doveva essere e sarà, pensando che quella cosa che lo rende a voi alieno sia solo un capriccio, un peccato, una mancanza di buona lena, un guaio.
Certo era una necessità affinché io accogliendo con grazia e umiltà nel mio cuore questa strana posizione che il mio corpo voleva e di cui abbisognava, aprissi con essa il mio cuore all'intera vita qual essa in me si voglia vivere e rappresentare senza che il giudizio, ahimè, morale ne adombrasse la sacralità del gioco".
"Stanotte tornerai?" chiese la nonna.
"Strano davvero è l'umano cuore! Nemmeno di una notte foss'anche solo quella, ti accontenteresti?"
"No, qui ti sbagli tu, che qualcosa anch'io l'ho imparato e non sono davvero più contenta se tu dormi qui o là.
Stanotte un angelo di Dio nel sonno mi ha parlato e mi ha detto: "Nonna, non amare di più il tuo piccino se ora lo troverai a letto. Non lo blandire come non avresti dovuto per questo spronarlo a cambiare o per questo maledire, che davvero nulla ha senso se non di per sé, per quel che muove nel cuore di ogni uomo, poiché, vedi, anche come dormi tu a noi angeli fa davvero tanto ridere.
Vedi, noi che siamo angeli dormiamo in piedi sulle nubi d'oro del mattino in quell'unico attimo in cui il cuore dell'uomo si desta dal sonno e l'ego astuto giunge a dire 'ecco son desto, ecco una nuova giornata tutta per me'.
In quel momento solo, noi sulle nubi dorate del mattino chiudiamo gli occhi al sonno perché Dio così vuole affinché noi non ci intromettiamo nel gioco dell'umano potere e dell'umano inganno.
E poi dopo che quel comando che getta nell'illusione l'intero giorno è stato dato, ecco noi apriamo gli occhi e torniamo a fare il nostro dovere all'insaputa dell'ego che si è imposto e s'è dettato re delle azioni tutte, e delle dolci astuzie della vita."

sabato 18 dicembre 2010

6 Storia del mulo che credeva d'essere un cavallo.

Che cos'è il male?
C'era una volta un mulo che credeva d'essere un cavallo, tanto e fiero e bello era il suo aspetto, non fosse stato che per gli zoccoli che ahimè, eran zoccoli di mulo e così i garretti poco sottili e poco nobili e gentili.
In questo suo credersi un cavallo un giorno un dubbio in verità lo colse, mentre abbeverandosi a tarda sera dopo i lavori nei campi, si vide accanto il cavallo del padrone.
Non gli sembrava d'essere poi tanto diverso ma qualcosa che non capiva lo tormentava.
Risolse il problema pensando che forse quel cavallo aveva qualche difetto e sicuramente non era in salute ché il fattore lo faceva faticare poco e lo strigliava molto.
Doveva dunque essere malato, pensò, proprio uno strano cavallo.
Il dubbio così cadde ma invecchiando e vedendo altri cavalli per la strada, ecco che si creò nella sua testa una strana ossessione: "Ho paura, che son vecchio ormai e alla fine dei miei anni, di morire, e che quelli di là quando arrivo per via di questi miei garretti mi prendan per un mulo, che da un po' di tempo mi è venuta quest'idea, avendo visto un giorno un animale che mai avevo visto prima e che tutto mi assomigliava, vicino ad un uomo che parlando con il mio padrone diceva - il mio mulo, il mio mulo -.
Ecco quale triste sorte è mai la mia che per questi zoccoli appena un po' pesanti e questi garretti meno sottili, io nell'aldilà non sia messo, in una deliziosa stalla a riposare, sì, ma fra dei muli, io che sono un cavallo".
L'unico male che io conosca è non conoscere ciò che si è realmente. Questo l'unico peccato padre di tutti i pianti e i guai del mondo.

sabato 11 dicembre 2010

5 Storia del cuore come specchio

C'era una volta un bambino nato cieco a cui i genitori avevano insegnato a render grazie del suo difetto sempre e ovunque, a render grazie di ciò che invero lui in cuor suo considerava una disgrazia, ma che, come dicevano i genitori, doveva da lui stesso invece essere considerata una grazia e una dolce distinzione della vita, una prova ardua ma per questo gradita della vita.
Passò il tempo e il bambino crebbe e fu un ragazzo dal cuore triste e torvo che di nascosto ovviamente da tutti, doveva nutrire i suoi peccaminosi pensieri, nascondendoli, per paura che qualcuno anche senza che lui li esprimesse a parole, sedendosi a lui accanto, li sentisse agitarsi nella sua mente e palpitare nel suo povero cuore.
I genitori facevano di tutto per renderlo felice non perdendo occasione per fargli notare come la sua diversità fosse lode a Dio perché sempre foriera di una qualche possibilità a distinguersi dagli altri, foss'anche solo per essere più riflessivo e solitario dei suoi compagni che, ignari della vita, schiamazzavano per l'intero giorno nei vicini cortili. Ed egli accoglieva queste parole come si accoglie un pugno in petto, con la pesantezza di una malanno, di un accidente, di una maledizione, che diceva e pensava: "Me ne importa molto di stare qui a sentire mia madre che cucendo racconta fiabe per me, io vorrei leggere cose diverse, non so neanche quanti e quali libri ci sono al mondo, per di più invece vorrei proprio correre e vociare come sento fanno i ragazzi della mia età".
Così, in questo odio fosco verso se stesso e la propria disgrazia, si apriva il suo cuore alla vita.
Era una stupenda giornata di aprile e lui se ne stava seduto come sempre nelle giornate più calde, contro il muro di casa. Stava sentendo il suo cuore parlare le solite parole di odio e di disperazione, quando in quel frastuono minaccioso sentì un passero cinguettare da un vicino ramo. Seguì con l'udito il suono e realizzò che doveva essere piccino e a pochi passi e sui rami più bassi, che ben distintamente lo ascoltava. Si lasciò rapire da quel canto inconsueto e dolce e chiuse la porta al cuore, foriero di tutti quei pensieri. Aprì tutto se stesso a quel canto dolce, a quel suono che sembrava più armonioso dell'organo che sempre sentiva in chiesa.
Non seppe come e quanto tempo passò perché d'un tratto, come se avesse dormito, si destò al nuovo rumore che lo distrasse ed era il rumore di un carro che passava sulla strada. Gli veniva appresso un contadino che bestemmiava a gran voce la sua sorte.
Aprì spaventato il ragazzo la porta al proprio cuore che gli era sembrato per un lungo tempo d'esser fuggito da sé, uscito da se stesso e in un mondo strano davvero d'essere finito. Aprì la porta al cuore per riprendere le antiche fantasie e gli antichi lamenti e le proprie bestemmie che gli ricordavano tanto quelle dell'uomo del carro, ma non riusciva a sentire altro che quell'uccello cantare e cantare.
Si spaventò e si drizzò come ad essere più attento, e si toccò anche il volto e le mani per sentire se ancora fossero vivi poiché sentiva solo più cantare e cantare quell'uccello. Allora corse in avanti come a fuggire da quella maledizione, da quell'incantesimo e battè la testa contro l'albero su cui era l'uccello. Volò via questo spaventato e zitto. E tornò d'un tratto il silenzio.
"Che mi succede?" domandò il ragazzo.
E sentì il cuore rispondere con calma:
"Hai sognato d'essere un uccello che cantava e così io ho seguito il tuo sogno, ché sempre il cuore segue i sogni degli uomini".
"E prima?" chiese il ragazzo.
"Prima sognavi e pretendevi d'essere un ragazzino sfortunato e triste e assai adirato con se stesso e con la vita. Volevi essere la maledizione di te stesso ed io con te maledicevo."
"Come - disse il ragazzo - il cuore forse lo comando io?"
"No non è proprio così, che il cuore certo non ti appartiene, ma tu puoi riempirlo a comando di cosa vuoi, puoi tu farlo adirare ed egli s'adira o lasciarlo nella pace ed allora così sarà".
"Ma io credevo il contrario e che fossi tu a parlarmi con tutto quell'odio nel buio dei miei giorni".
"Davvero hai potuto credere questo, e perché?"
"Perché le parole e l'impeto mi sembrava proprio di lì provenissero e sgorgassero".
"Non è affatto così - riprese il cuore - che il cuore è il centro del divino e mai da tali pensieri può essere colpito, ma l'uomo che nella propria mente ripone tutta la fiducia, agita questa in mille congetture e organizza con essa mille guai e mille pretese, che la mente mai sazia si lancia in tranelli sopraffini e sempre richiede e aizza l'intervento del cuore. Il cuore pare assecondare, poiché non può essendo puro amore opporre una lotta, come Cristo si lascia dai chiodi trapassare e trafiggere e sputare.
Ma il cuore non è corruttibile e resta solo uno specchio fedele di ciò che accade nella mente dell'uomo, cosicché questi guardandosi anche nelle sue profonde meditazioni, il cuore, non s'accorge dell'inganno e vi vede riflesso tutto il proprio volere, il proprio piacere e il proprio entusiasmo e le proprie brame, e dunque pensa che veramente lì tutte quelle cose risiedano, come tu hai creduto lì risedesse tutto quell'odio. Così ognuno piange di se stesso e pregando e infliggendosi dure penitenze, cerca di "mutare il cuore".
Sciocco e stolto colui che cade in questo tranello poiché non sa che il cuore è uno, puro e indivisibile e intoccabile e riflette solo, come uno specchio terso, ciò che la mente dell'uomo gli manda.
Che cosa mutare e chi?"