sabato 1 dicembre 2012

22 Storia sulla preghiera.


Non intromettetevi sempre a ragionare .
L'analisi è la culla della viltà di chi persegue uno scopo e di chi ascolta vecchie brame di strapotere e di inganni!
Siate semplici, semplici e godrete fin anche all'ultima goccia il vaso che vi è dato di bere. Poiché solo quello è posto fra le vostre mani che avide o meno non possono comunque di più.
Comprendete e lasciate spazio al cuore.
Non tormentate le vostre menti a capire, esse partoriranno solo figli ignobili e mai sazi che detteranno guerra e porteranno povertà.
Accontentatevi del non sapere e della quiete della mente che riposa su se stessa e sulle proprie pretese accoccolata come un gatto, pronta però a tirare fuori i propri artigli!
Non lasciatele spazio ma non punitela!
Siate con essa, con voi, con tutti compassionevoli!
Non vivete di gioie e di dolori, non siate nell'attaccamento e nel rifiuto, compensando così con vane prepotenze il senso di perdita che trabocca dai vostri cuori!
Alleggerite i vostri fardelli e vivete di virtù e di santità se queste sono le proprietà che la vita detta in voi!
Ma fate attenzione a non imbruttire priorità che la vita detta, come cose da meno poiché così il vostro mentale ragiona, perché sappiate che tutto è sacro e nulla da meno o a caso.
Poiché che priorità ha il giorno che nasce? Se non quella di lasciarsi guidare dal tempo, dal vento che fa?
Non ci sono priorità se non quelle che la vita detta in ogni istante ed in ogni dove ma voi ciechi, vi rifate ai vostri buoni propositi, alle pretese di unità, di regole divine e di divine leggi, di cui vi siete appropriati per dar vita e sussistenza a un pagliaccio indeciso!
Sì perché voi poi non sapete mai decidere e scegliere, ardua è sempre la decisione se non è la priorità stessa a farsi priorità!
Non rifiutate mai nulla e non desiderate, neanche me!
Non vogliate farmi oggetto dei vostri desideri e fine delle vostre virtù!
Non crescete in seno a voi figli morti prematuramente per ingordigia di volontà!
Siate in pace con il vostro cuore!
Siate sereni e dolci come il miele che appaga anche la bocca di un lattante!
Il bene si fa da se stesso, esso ha cura di voi non voi di lui, ve lo ripeto!
Che cosa volete custodire, dunque?
Lasciate spazio, lasciate gratitudine e adorazione espandersi di per se stesse senza alcunché di riguardo a qualcosa o a qualcuno!
Non adoratemi.
Non vogliate consacrarmi.
Non chiamatemi.
Non ascoltatemi.
Ma nello spazio incontaminato e puro del silenzio, lasciate che ogni cosa si muova senza un fine, di per se stessa!
Voi non adorate, siate adorazione!
Voi non vogliate pregare, siate preghiera!
Voi non potete raggiungere qualcosa, potete solo lasciare andare ciò che le vostre mani troppo avide hanno finora trattenuto!
Lasciate molto spazio alla preghiera!
Essa è la dramma più preziosa che esiste al mondo!
E lasciate la preghiera alla sua santità di preghiera che è perfetta.
La preghiera non nasce dalla mente poiché essa non nasce e non viene compiuta, sgorga solo quando le si dà libero sfogo senza altro pensare ed essa zampilla allora preziosa!
E' come una falena che danzi per danzare con le sue belle ali trasparenti vicino al fuoco che poi la brucerà!
Lasciate spazio alla preghiera ma vi prego voi non vogliate guidarla!
Lasciate il cuore al cuore!
E la parola che nel silenzio sgorgherà, essa è la preghiera che voi stessi siete e che in ognuno fu scolpita e messa perché le sue labbra profumate la pronunciassero a lungo e con pazienza!
Non opponetevi ad essa e non vogliate giudicarla e arricchirla!
Ognuno nel silenzio l'ascolti, essa apparirà.

martedì 6 novembre 2012

21 Storia del drago e del bambino che non lo vede.

C'era una volta un drago che spaventava tutti quanti, eccetto un bambino, ma nessuno si chiedeva il perché, avendo ognuno in cuor suo deciso che ciò fosse possibile per una sorta di magia in cui si diceva il piccolo fosse stato avvolto, il giorno stesso in cui era nato, perché quel giorno coincideva con l'incontro del sole nel cielo con Marte e, come si sa, Marte è il pianeta del coraggio.
Passarono anni e anni in cui tutti gli abitanti di quel paese, sempre più spaventati da quel drago, avevano ormai rinunciato, e a trovare una soluzione pacifica col drago e a attaccarlo, cercando così di abbatterlo, ma vivevano nascosti lamentando questo gran disagio, ma del resto, ormai anche abituati.
Qualcuno nel tempo aveva cercato di osservare come quel ragazzo attraversasse quella valle dove c'era il drago, per imparare da lui e allenarsi a comportarsi come lui, ma tutto si era rivelato inutile anzi dannoso, ché qualcuno stimando aver capacità e coraggio era andato nella valle come quel ragazzo e così era stato dal drago fatto a pezzi!
Nessuno però in tutto quel tempo aveva mai pensato di chiedere al ragazzo semplicemente che vedeva!
Fu così che un giorno il ragazzo disse ad un amico: "Passando nella valle dove voi vedete il drago ... "
"Come - chiese l'amico - ma allora tu non vedi il drago?"
"Certo che no, altrimenti anch'io ne avrei paura!"
Commento: colui che teme vede draghi al posto di nuvole dorate, colui che vede, non teme draghi non perché sia un coraggioso ma semplicemente perché non li vede!
Quindi perché cercare di "guarire dalla paura del drago"?
Cercate, insieme se potete, di vedere che il drago non c'è.
Non c'è nulla da vincere e nulla da accettare, c'è solo da vedere e da conoscere quel che realmente è. Se continuate a muovervi per distruggere la paura o, stimando questo più cortese, volete amarla, allora fate come colui che vuole ingrassare l'oca e poi vuole ammazzarla, restando sempre nello stesso gioco.
Lasciate che l'oca mangi quando ha fame, cioè lasciate che la paura abbia cura di se stessa, non intromettetevi a maledirla, ma nemmeno a benedirla in una sorta di mascherata astuzia che può rivelarsi solo fatale.
Mutate il punto di attenzione, non sia più esso la vostra paura ma ... il vostro sguardo. Accorgetevi che non vedete realmente ciò che c'è.
L'ignoranza è la madre della vostra cecità, e il desiderio è il padre del vostro dolore.
Non crediate che abituandovi poco alla volta all'idea del drago, questi un giorno o l'altro, come per miracolo, nel buio, da cui credete sia uscito, ecco sparisca.
E' la vostra mente che ha partorito il drago e quando indossate un paio di occhiali che vi facciano vedere il drago rosa e piccolino avete l'impressione di non averne più timore; ma se poi quegli occhiali, per una ragione qualsiasi, cadono il terrore si ripresenta.
Un drago, guardatelo come volete, è pur sempre un drago, sputa fuoco ed ha grossi artigli, ma tutto ciò è nel 'giusto onore' di un drago.

venerdì 24 agosto 2012

20 Storia del discepolo che chiede cosa sia la necessità


Un giorno un discepolo chiese al suo maestro: "Che cosa è, maestro, questa necessità che a sentir voi la vita propone e a cui essa stessa senza inganno né illusione risponde, e voi non siete nella scelta e nel giudizio?
Dovreste proprio farmi capire perché se le vostre parole, è vero mi rapiscono il cuore, io poi non so districarmi tra le tante offerte della vita che tutte mi paiono a volte necessarie e tutte a volte sciocche e vane!"
"Hai mai visto cosa fa il sole che all'alba si alza sereno e illumina il mondo e quando il giorno, stanco, cade, esso s'appresta a cadere giù dietro le nubi e le tempeste e le bonacce che il cielo nasconde? Questa è necessità!" disse il maestro.
"Voi non potete rispondermi così, maestro, ché io ho bisogno di un consiglio pratico e di capire e di essere guidato a riconoscere qual è, ve lo ripeto, e che cosa è in ogni momento la necessità, quella che dite voi si fa da sé priorità e non vi caccia in inutili tenzoni e in subbugli di cuore, nel ripensare a ciò che avete fatto e scelto." Disse il discepolo.
"Mi sembri un gatto - continuò il maestro - che prima ancora di avere artigli aguzzi voglia pescare il pesce nel torrente."
"Perché - chiese il discepolo - il gatto non nasce con gli artigli aguzzi?"
"Sì - disse il maestro - un gatto nasce con gli artigli aguzzi ma di sua necessità dovrà imparare ad adoperarli poiché, se con essi afferra lentamente e senza affondo il pesce che salta nel torrente ecco, non mangerà mai, ma se affonda nei propri compagni o nella prole i propri artigli quando gioca, ecco dovrà fare le spese della rissa che ne nascerà."
"Dunque volete dire che bisogna provare a vivere per capire? E' questo che intendete?"
"No, non proprio - continuò il maestro - perché vedi, ho detto che di per sé il gatto ha artigli aguzzi e certo vivendo saprà adoprarli, ma non come pensi tu, per un macchinoso calcolo del suo cervello, o per una sorta di lunga tenzone fra sé e la sua forza e la sua intenzione, o per un allenamento a mutare i colpi dei propri artigli in modo consono ai suoi desideri!! No, non è proprio così."
"Ma allora volete dire che vi è un istinto!"
"Ecco - disse il maestro - ma non è ancora così. E' come un antico canto che ognuno in cuore ha e sa benissimo svelare e riconoscere ma non comunicare agli altri, poiché ognuno ha il suo.
Questo canto, quando lo si lascia sgorgare e nascere, ecco detta di per sé come una melodia di fondo le note che devono apparire."
"Ma non è la vita che fa apparire, piuttosto, le note e noi ci arrabattiamo a scegliere la migliore?" chiese il discepolo.
"Ecco finalmente tu lo hai detto!
La tua ignoranza è davvero abissale se ancora pensi che tu scegli e che ci siano note migliori! - disse il maestro e continuò - Un giorno un topo si recò prima del previsto fuori della sua tana e vide da lontano un gatto maestoso e grosso che sembrava aspettare proprio lui e lì vicino, appresso al gatto, un bel pezzo di formaggio. Lo stomaco del topo era distrutto per la gran fame tanto che non vedeva neanche più da quella gran necessità che si portava in petto.
Ora se capisci che cosa è necessità, saprai rispondermi se il topo vuole morire o vuole sfamarsi."
Giorni e giorni pensò ad una risposta il discepolo e mai arrivava ad una risposta che lo illuminasse, che gli prendesse il cuore, così finalmente si decise ad andare dal maestro.
Là giunto disse: "Io sono come quel topo e questa mattina non voglio seguire il solito rituale per parlarti perché in me più forte è la necessità di parlare che di far silenzio e di sedermi qui accanto a te."
"Ah! Capisco - disse il maestro - allora il topo è morto?!"
"Davvero ignorante anche tu sei, o gran maestro, ché in ogni caso il topo sarebbe morto, che se tornava indietro moriva di fame e se andava a prendersi il formaggio, sarebbe morto ucciso dal gatto!" disse il discepolo.
"Oh! - disse il maestro soddisfatto - E hai concluso qual'è l'unica necessità che ha il topo?
Ed essa non è forse la stessa che ha il sole?"

lunedì 18 giugno 2012

19 Le sensazioni del Priore


Un giorno un giovane monaco, convinto che il suo priore, reputato da tutti un saggio, non soffrisse più nulla e non gioisse più per alcunché, rimase stupito nel sentir dire da quel superiore:
"Ottima questa minestra di verdura, ne vorrei ancora."
Fece così la sua osservazione e il priore, senza alzare gli occhi dalla sua ottima minestra, disse:
"Figlio mio, il mio stomaco è sano e forse il tuo, se pur sei così giovane, non lo è, annegato com'è dal desiderio di non desiderare così che non avverte più neanche i gusti che gli piacciono.
Fai attenzione, ché uno stomaco come il tuo i casi sono due: o muori di fame o fai una grossa indigestione!"
Commento: Non confondere il giudizio con il vedere quel che è.
Il giudizio dice questo è bene, questo è male, portandosi sempre dietro il desiderio e il rifiuto, fonte di sofferenza.
Il vedere quel che è fa solo sì che i vostri occhi, attenti, distinguano un fosso da un dosso, in modo che il vostro piede si accomodi alla conformazione di quel suolo, senza inciampare e storcersi.

lunedì 21 maggio 2012

18 Storia del bimbo e del suo angelo (Il discernere fra giudizio e ciò che è)


C'era una volta un bimbetto sveglio e piccino, tanto piccino e magro, da far tenerezza al cuore a guardarlo e così cocciuto e chiuso nel suo dolore, che neppure all'angelo di Dio che a tutti parla, era dato il potere di toccargli il cuore.
Il suo dolore era così grande e profondo che lo sentiva premere come un macigno contro il petto e, senza tregua, lo asciugava come il sole fa, con un arbusto senza riparo alcuno.
Avvenne così che una notte, mentre piangeva disperatamente, l'angelo di Dio bussasse lievemente, e questa volta udito, alla porta del cuore del piccino.
Si destò costui dal sonno lieve per scivolare in un sonno più profondo, dove la mente non spinge ai desideri e alle illusioni e chiese:
"Chi è che bussa?"
"Sono io, l'angelo di Dio."
"Avanza o benedetto, grande foriero di pace e di saggezza, ché io subito aprirò la porta del mio cuore!" disse il piccino.
Ma cercando di aprire la porta, il piccolo si accorse che gli mancavan le chiavi.
Si sedette triste ad aspettare che so, un'idea, un barlume d'ingegno o un'iniziativa dell'angelo, ma il tempo passò, almeno così sembrò a lui, che nessuno dei due parlava e nessuna idea si affacciò alla sua piccola mente buia.
"Che c'è?" chiese l'angelo.
"C'è che non posso aprirti la porta del mio cuore perché ci vogliono le chiavi che io non ho!"
"Capisco - riprese l'angelo - eppure a me hanno detto che non ci sono porte e che non esiston chiavi, se il cuore che mi accoglie riconosce come vera questa frase: - Il Signore non dà e il Signore non toglie! -"
"Ma questo non è vero!" disse il piccino.
"Allora io ripasserò un'altro giorno!" rispose l'angelo di Dio.
Penosamente raccolto su se stesso, come un piccolo batuffolo di lana, il bimbo cominciò a piangere, ma quella frase dell'angelo prese tosto il posto di quel dolore.
"Il Signore non dà e il Signore non toglie."
Andò avanti giorno e notte con quella cantilena dentro al cuore, "il Signore non dà e il Signore non toglie", quando un dì si ricordò tutto d'un tratto, che aveva vissuto tutto quel tempo senza pensare più al suo problema.
Com'era possibile?
Eppure quel dolore lo aveva perseguitato giorno e notte e lo aveva asciugato nelle sue piccole membra fino alle ossa, fiaccandolo come un vecchio in fin di vita.
Cominciò allora a far su questo fatto qualche considerazione e comprese come la mente, occupata da un pensiero, non può che usare quello come se si fosse dato in mano ad una scimmia, di cui vogliamo liberarci perché pedante e noiosa, un gioco, e di quello lei si interessasse senza importunarci più.
Allora si chiese il bimbo se avessero ragione gli altri a dirgli che lui pensava troppo.
E tutto il senso del mio problema, si chiedeva, era solo spostare la mente da un pensiero ad un'altro?
Sentiva che, in parte, un po' di verità in questo c'era, ma non proprio tutta.
Come quando si svolge un componimento e si capisce che sì, abbiamo centrato l'argomento, certo abbiamo risposto a tono, ma qualcosa, qualcosa di vivo e di vitale per il tema, manca, ecco, manca la poesia del cuore!
Fu così che, immerso in quelle sensazioni, sentì di nuovo la voce soave dell'angelo di Dio.
"Son qui, dove del resto son sempre stato e, visto che la mia frase è riuscita nel suo intento, voglio spiegarti che cosa non comprendi."
"Ecco, disse il piccino, com'è che la mia mente, furba come una scimmia, fa un pensiero cui per fama di virtù o per desiderio si attacca e con esso si trastulla per il piacere che le dà, oppure, se teme quel pensiero, essa lo ghermisce come un frutto acerbo e cerca di schiacciarlo per il terrore che quello le incute?"
"Già - disse l'angelo - è proprio così, ma dov'è il problema?"
"Il problema - disse il piccino - è che se anche io placassi la mia mente, cosicché essa faccia pochi pensieri, potrebbero restare, io mi sono accorto, i pensieri che più temo e che più spaventano il mio cuore, facendomi soffrire!
Allora - proseguì il piccino - quale può essere l'uscita, che la mente sempre pensa e, con quel che pensa, gioca?"
"Proprio nel gioco - rispose l'angelo di Dio - proprio nel gioco è il triste fine, il tutto!"
"Nel gioco? Cioè?" chiese il piccino.
"Vedi, - rispose l'angelo - se la tua mente fa pensieri che tu non puoi che accogliere così come il tuo cervello accoglie le immagini che gli occhi gli conducono, perché non fermarti a questa sola funzione?
"Spiegati meglio"
" Vedi, la nascita di un pensiero è come la nascita di un bimbo: è nato, è lì e il mondo non può che accoglierlo così com'è, senza coltivare in lui manie di grandezza o timori di inutilità, facendo in questo, ciò che invero fa la vita."
"Ancora non comprendo" disse il piccino.
"Non comprendi come colui che innesca il gioco della mente sia il giudizio? Esso si attacca come l'aquila dei monti ai vostri pensieri e lì, con i suoi lunghi artigli appeso, comincia il suo inutile e per voi tanto triste gioco.
Ecco - riprese l'angelo - nasce un pensiero e, l'uccello rapace delle vostre menti, il giudizio, lo attacca e lo ghermisce, allevando così in seno a voi le vostre brame e i vostri rifiuti.
Come non capire?
Se voi non giudicaste, voi non preferireste e non rifiutereste!
Se, nato un pensiero, esso si staccasse dalla vostra mente come i petali di una corolla di un fiore giunto il tempo della sfioritura, ecco che tutto si consumerebbe senza lasciare traccia alcuna, come nel cielo le nuvole passando non lascian orma alcuna.
Se invece interviene l'aquila, cioè il giudizio, ecco che i pensieri, come fiori assai straniti, crescono a dismisura come giganti insolenti in una piccola serra a primavera, avvolgendo tutto nelle loro spire con stretti lacci di passioni e dunque, di vane sofferenze!"
Commento: Ognuno lasci libera la mente di fare il suo dovere, come lo fa ogni cosa da me voluta, solo non s'appigli ai figli della mente facendoseli crescere in seno come propri figli da allevare con astuzia e voluttà per farne virtù e misericordiosi adempimenti, né tanto meno li scacci come figli reietti e bastardi mandandoli raminghi per il mondo poiché io che son giusto ed ho pietà dei figli così cacciati, a loro ridarò il loro giusto tetto.
State attenti ai vostri pensieri e non prendetevi cura di loro.
Osservate i vostri pensieri come se fossero pacchetti colorati che la vostra mente emette, proprio, come sapete, le cellule ghiandolari emettono degli ormoni.
Prendersi cura dei propri pensieri è come scartare quei pacchetti, per trovarci dentro chissà che, facendo in modo che la mente, stimolata dai nuovi oggetti, trovati dentro al pacco, confezioni anche questi, allungando così la fila dei 'doni' che essa, scioccamente, continua a sua insaputa a farsi.
Colui che guarda dentro ai pacchi o che ne ferma uno per ammirarlo o denigrarlo è il giudizio che crea solo sempre nuovi guai.
Attivarlo è come attivare le pale di un mulino che vengono mantenute nel loro moto dalla stessa acqua che fan girare!
Tenersi in seno un pensiero perché lo si stima buono e piacevole e bello, attiva lo stesso 'mulino' che poi si vuol disattivare, quando il pensiero è cattivo, disdicevole e pauroso!
Non si può fermare il mulino, semplicemente quando si vuole, occorre non attivarlo.
La mente è come un cielo, il cielo non è né sereno, né nuvoloso, poiché di per sé è soltanto 'cielo'.
Abbandonate il giudizio e, come per magia, la scia dei 'pacchetti, non venendo né intoppata, né alimentata, si esaurirà naturalmente perché, anche se voi non lo credete possibile, i pensieri non sono mai nuovi, ma sempre soltanto piccoli pacchetti, trovati dentro a grandi pacchi! Basta non fermare e non aprire i pacchi! E attenzione a non confondere il giudizio con il vedere quel che è.
Il giudizio dice questo è bene, questo è male, portandosi sempre dietro il desiderio e il rifiuto, fonte di sofferenza.
Il vedere quel che è fa solo sì che i vostri occhi, attenti, distinguano un fosso da un dosso, in modo che il vostro piede si accomodi alla conformazione di quel suolo, senza inciampare e storcersi.




martedì 17 aprile 2012

17 Soria del monaco e delle parole scritte sulla porta della sua cella

 "Non dimenticare che hai dimenticato"
Si racconta di un monaco che trovò scritte queste parole sulla parte interna dell'uscio della sua cella.
Il monaco studiava i testi sacri e profani e voleva arrivare a capire, a comprendere, arrivare a sapere!
Non gli sembravano mai sufficienti i testi, le spiegazioni che lo ricacciavano nello stesso inganno dei suoi maestri.
In quel convento trovò un ottimo maestro, un vero maestro, che non gli spiegò più nulla e gli consigliò di arrostire in un bel fuoco tutti i suoi scritti ed i suoi testi, sacri e profani.
Quelli lo avevano solo accecato e di più cacciato nell'illusorio sapere, ma il maestro, che era un vero maestro, non si fece mettere nel sacco da un discepolo che aveva il cuore gonfio di desiderio di sapere, ma di quel sapere che appaga il mentale; così disse. "Mi sembri una scimmia che recita a memoria un copione, sperando così di essere un uomo!
A che ti servirà capire chi è Dio? Lo troverai forse fra le tue carte e i tuoi sillogismi, fra le tue vedute di cieli spaziosi e di spazi incontaminati, fra le tue stesse pupille di gazza che cerca l'oro, ciò che luccica tra il pattume?"
Si offese il monaco per l'irriverenza del maestro a chiamar pattume i suoi cari metodi e testi sacri.
E il maestro rispose: "Vai, portati appresso i tuoi bagagli sempre più copiosi e pesanti fino a che il mulo stesso che li porta non si stenderà per terra esausto di sua stessa lena.
Non c'è speranza in questo tuo cercare vano e mendace!
Non ce n'è!
Ce n'è di più per una scimmia che vive in una foresta a capire la scimmia, che in una scimmia da circo a cercare di fare l'uomo!
Poiché la scimmia deve comprendere non l'uomo ma la scimmia stessa, e ciò che deve conoscere non è la scimmia ma la foresta!"
Dopo quella discussione con il maestro, tornato nella cella trovò quelle parole scritte sull'uscio e ripetendo nel tempo quella frase, capì.
E arse di suo stesso fuoco il mentale!
E fu libero. Veramente!"

Commento: Ma cercare di conoscere Dio dai libri e dai salmi che può servire?
E' come se i libri che voi leggete per sapere chi è Dio, si trovassero, in un attimo, in perfetta sintonia con il libro di Sé che Dio ha scritto nel vostro cuore.
Ecco, il gioco è fatto, il dentro è il fuori e il fuori è il dentro, non c'è più tu e io, l'uomo e il suo dio, c'è solo l'Uno che ... si è riconosciuto.

martedì 27 marzo 2012

16 Storia della razza e del mare

Un giorno un pesce se ne andava nuotando tranquillo per il mare, quando incontrò una tartaruga gigante che con un gran colpo lo buttò contro la roccia, facendogli un gran male.
Pensò quel pesce di aver subito un danno, e allora andò dal dio del mare a raccontargli l'accaduto.
Il dio del mare non poteva essere visto perché era dio, ma tutti sapevano chi era e dove viveva.
Si diceva nel più antico annale della marina storia, che quel dio era un pesce, buono e solenne, perfetto nel suo essere e che viveva in una grotta senza mai uscire, e tutti si recavano all'imboccatura maliziosa e angusta di quella caverna, e lì dicevano i loro guai e chiedevano consigli.
Da questo pesce dio si diceva avesse avuto inizio il mondo marino; egli lo aveva creato!
Così il nostro pesce si recò là e disse la sua pena.
E il dio rispose:
"Tu devi perdonare, ciò ti procurerà una gioia ineffabile e, morto che sarai, ti sarà riservato un posto in questa grotta, qui accanto a me, tra stelle marine e conchiglie profumate e iridescenti, tra banchi di coralli e preziose perle!
Il pesce se ne andò via tutto tranquillo.
Giunse di lì a poco davanti alla fessura anche la tartaruga che voleva confessare la sua colpa, e la voce rispose:
"Pentiti, per questo tuo pentimento, la tua umiltà, giacché sei un animale così glorioso e grosso, sarà rinvigorita e tu non potrai che trarne vantaggio."
Così andavano le cose in quel mare, quando un giorno arrivò una magnifica razza che, con il suo ondeggiante dondolio, attirò l'attenzione di tutti. Pareva un magnifico esemplare in perfetta gioia e continuamente si sentivano per l'acqua le dolci melodie sommessamente create dai suoi regali movimenti, e la sua grazia nell'incedere tra spazi aperti e tenebrose grotte, era avvincente, così come i suoi occhi parevano smeraldi ammansiti senza nessuna ombra, né troppo fulgore.
Questo pesce, cominciarono a dirsi tutti, ha un segreto.
Fu così che il nostro pesciolino si interessò alla razza, domandandole il perché di tanta grazia, e quella semplicemente rispose:
"Perché so chi sono."
"Che cosa vuol dire?" Chiese il pesciolino.
"Se non comprendi, non serve che io ti spieghi." rispose la razza.
"Capisco - disse sprezzante il pesciolino - forse tu hai un rapporto di favore con il nostro dio."
"Dio? - chiese la razza - Quale dio?"
"Non conosci dio? E come fai a dire che sai chi sei se non sai neppure chi è il nostro dio, e di come egli ci abbia creato, sporgendoci fuori dalla sua mansueta bocca di pesce in bolle colorate, uno ad uno, dallo squalo al piccolo gambero, dalla conchiglia più ricca al corallo più prezioso?"
"Ah! - disse la razza - e l'acqua che qui c'è, e in cui noi nuotiamo, l'ha fatta pure lui?"
"Questo non sta scritto ... sicuramente è un mistero! Noi non possiamo capire - disse il pesciolino - ma sicuramente ogni cosa viene da lui."
"Ma se hai detto che è un pesce - osservò la razza - come faceva ad esistere da pesce prima dell'acqua?"
"Tu mi vuoi confondere! Egli è un pesce ma ... perfetto, non come noi, ha le branchie ma può non usarle!"
"Capisco - continuò la razza - arrivando invece io da un mulinello, avevo creduto un giorno d'essere nata per forza dalle onde e dal moto del mare, ma quando seppi da mia madre che semplicemente in quel mulinello d'acqua essa mi aveva partorito, cominciai a chiedermi da cosa tutto ciò che mi circonda e io stessa avessimo preso vita."
"E lo hai scoperto?"
"Sì, è il mare che non partorisce figli come una dea in calore, ma gioca di sua lena il gioco più convincente che un pesce possa giocare! Cosicché ogni pesce si prende per un pesce, elegge un pesce dio e continua, in quest'acqua dorata e sempre nuova, a pensare di nuotare e che l'acqua serva solo a quello!"
"E di grazia - chiese il pesciolino - a cosa può servire quest'acqua in cui siamo immersi?"
"A ben vedere in essa tu non sei immerso, ma di essa ti componi ed essa in te si esplicita qual che tu sei!
Perché - proseguì la razza - ho scoperto d'essere il mare, questa acqua dolce, immensa e perenne, e di sua stessa fonte alimentata, che gioca ad essere una razza, in un gioco cordiale e completo, così avvincente e sereno, che per poco non ci cascavo e non credevo così, che di essere una razza in una razza!"

sabato 18 febbraio 2012

15 Storia del maestro nato cieco

C'era una volta un re che voleva trovare Dio.
Dio, Dio, chi fosse questo Dio non lo sapeva, ma il cuore, quello lo spingeva a trovare questo Dio.
Non s'accontentò il re di ciò che gli veniva detto e, avendo sentito parlare di molte religioni e molti credo e di molti uomini di virtù e santità che si diceva che quel Dio avessero trovato, decise un giorno di riunir costoro davanti a sé, per sentire da loro chi fosse Dio.
Il numero di quei sapienti che sfilò di fronte al re fu tale che per giorni e giorni il sovrano non poté uscire dalle sue stanze e, sempre più pauroso e titubante e triste, ascoltava ormai con viva noia il tutto.
Sì, delle tante frasi ascoltate alcune avevano toccato il suo cuore come se da sempre le avesse attese e invero dunque, non così completamente ignote, ma ci voleva altro, pensava il re, perché a trovar Dio ci si doveva sentir ardere da fuoco o sublimare da una gioia senza uguali.
Ascoltò tutti e l'ultimo giorno si presentò a lui un vecchio secco come una canna e solo come un cane. Si diceva di costui che fosse un santo eremita di un vicino villaggio e che non avesse né sottoposti né seguaci, poiché coloro che con lui erano stati, poi, non si sapeva il perché, se ne erano andati.
Quest'uomo, quando fu davanti al re, salutò con un cenno del capo che chinò sul petto, portando le mani giunte dinanzi al proprio cuore e, fulmineo come il lampo per il caldo in un cielo d'estate, disse: "Sono nato cieco." e risoluto come era venuto se ne andò.
Sgomento il re pensò che vaneggiasse per l'età e che davvero poi non potesse essere tenuto in gran conto un saggio senza né scuole né chiese, né discepoli o seguaci a lui riconoscenti almeno per qualche grazia e così concluse il re che con quello tutto s'era chiuso e lui ne aveva tanto come prima non fosse stato per una quantità veramente inestimabile di libri dove ogni sapiente aveva detto: "qui troverai Dio".
Ma quella frase "sono nato cieco" tormentò il re, sempre presente e fresca come appena pronunciata, in tutti i giorni a venire.
Si decise così un giorno il re ad andare alla grotta di quel saggio e così, di nascosto, andò.
Giunto, lo trovò dopo lunghi tentativi semplicemente perché vide fuori di una grotta, sostare addosso alla parete, un sacco ed una canna. Entrò e il buio, solo quello, lo accolse così che il re cominciò a chiamare.
Nessuno gli rispose ma il re continuò a cercare e dopo un po', quando i suoi occhi si abituarono al buio, vide quell'uomo fermo, immobile, seduto con una grazia davvero inconoscibile al centro della grotta. "Salve" disse il re e si presentò.
L'uomo non alzò lo sguardo solo rispose con un cenno del capo come a dire: "Puoi parlare".
Il re allora gli domandò cosa volesse dire la frase che gli aveva detto.
"Se sei qui lo sai" rispose il saggio.
"Mi deridi forse - rispose il re - che se son qui anche un idiota capirebbe che è perché non so?"
"No - riprese il saggio - non è così. Tu non vuoi ancora sapere ma già sai".
"Allora grande sapiente - disse il re - perché di te si dicono cose da ignavo e che non fai miracoli e che pochi discepoli tu avesti che poi tutti ti abbandonarono, e che di questi due, di te più grandi, operano autentici miracoli nel curar la povera gente?"
"Ah! - disse il saggio - E perché, se di me sai tali cose, sei venuto oggi quassù?"
"Per sapere che vuol dire che sei nato cieco".
"E' perché tanta luce potrebbe abbagliarmi" rispose il vecchio.
"Ma se hai detto ora che sei nato cieco - disse il re - come potrebbe la luce farti questo, che poi se anche tu vedessi solo un po', qui non c'è che buio?"
"Ma dentro non è così"
"Dentro dove?" chiese il re.
"Davvero non lo sai ?" chiese il saggio.
"E poi -  aggiunse - io non ho detto che non vedo, ho detto solo che sono nato cieco".
"Questa è una terribile umiliazione per un re stare ad ascoltare un vecchio che vaneggia - riprese il re - ... ma sei cieco o non sei cieco?"
"Bisogna vedere tu cosa intendi per nascere - rispose il vecchio - se intendi venire a questo mondo allora tu ti sbagli che io per questo mondo e in questo mondo davvero non sono cieco, ma a questo mondo quando nacqui fui cieco. Comprendi?"
Si avvilì il re a quelle parole anche se, non sapeva come, qualcosa gli riusciva di comprendere, meglio, sentire, tanto questo modo insolito e nuovo di capire era diverso e lontano dal consueto giudizio della mente.
E in quel momento con una cadenza dolce ed armoniosa il saggio pronunciò queste parole: "Sette volte nacque un uomo e vedeva. L'ultima volta vedeva come un re, ma quando non vide più e fu cieco, finalmente vide".
Stettero a lungo in silenzio poi il re chiese: "Vide cosa?"
"Guarda" rispose il saggio e sospirò.
Il silenzio colmò ogni perplessità e indebolì con la sua grazia la luce vana e fioca della mente di quell'ostinato voler sapere e capire, che ci fa tutti inadeguate comparse di un grande sogno.
Si sentì poi un lieve calpestio e il re, aperti gli occhi, vide un giovane monaco avanzare nella grotta, inchinarsi davanti al vecchio e a lui e poi sedersi accanto a loro.
Passò del tempo in cui nessuno proferì parola poi il vecchio disse al monaco: "Ho saputo che fai miracoli e operi vere guarigioni, Perché non mi hai detto nulla, io che sono il tuo maestro?"
Dopo un attimo di silenzio che parve al re un'eternità il giovane rispose: "Perché il mio maestro già lo sa".
S'inchinò davanti al monaco il saggio e con un sorriso dolce, luminoso e quieto disse rivolto al re: "E già, egli lo sa"

venerdì 20 gennaio 2012

14 Storia del boa, del pitone e del serpente minore

Un giorno un boa si incontrò con un pitone. Entrambi desideravano di conoscere Dio ma le loro idee su questo dio erano alquanto diverse, così decisero di ritirarsi in meditazione per scoprire chi dei due fosse più vicino alla verità.
Mentre erano ritirati in preghiera, ecco che passò di lì un serpente di quelli minori che non fanno storia nella foresta e, sbadigliando, disse: "Oggi ho concluso il cammino che mi hai indicato. Domani, come sempre, svegliami tu!"
Lo udirono i due serpenti e si chiesero se colui stesse veramente parlando con dio. Così lo avvicinarono e glielo chiesero.
Il serpente minore rispose tranquillamente che lui aveva imparato quella preghiera da suo nonno e così, ogni giorno, al calar del sole la recitava. Non sapeva come, ma funzionava sempre perché ogni sera arrivava dove Lui voleva e ogni mattina sapeva dove Lui voleva che andasse.
"E come fa a dirtelo?" chiesero stupiti il boa e il pitone.
"Ma è proprio questo il bello, Lui non me lo dice!"