sabato 11 dicembre 2010

5 Storia del cuore come specchio

C'era una volta un bambino nato cieco a cui i genitori avevano insegnato a render grazie del suo difetto sempre e ovunque, a render grazie di ciò che invero lui in cuor suo considerava una disgrazia, ma che, come dicevano i genitori, doveva da lui stesso invece essere considerata una grazia e una dolce distinzione della vita, una prova ardua ma per questo gradita della vita.
Passò il tempo e il bambino crebbe e fu un ragazzo dal cuore triste e torvo che di nascosto ovviamente da tutti, doveva nutrire i suoi peccaminosi pensieri, nascondendoli, per paura che qualcuno anche senza che lui li esprimesse a parole, sedendosi a lui accanto, li sentisse agitarsi nella sua mente e palpitare nel suo povero cuore.
I genitori facevano di tutto per renderlo felice non perdendo occasione per fargli notare come la sua diversità fosse lode a Dio perché sempre foriera di una qualche possibilità a distinguersi dagli altri, foss'anche solo per essere più riflessivo e solitario dei suoi compagni che, ignari della vita, schiamazzavano per l'intero giorno nei vicini cortili. Ed egli accoglieva queste parole come si accoglie un pugno in petto, con la pesantezza di una malanno, di un accidente, di una maledizione, che diceva e pensava: "Me ne importa molto di stare qui a sentire mia madre che cucendo racconta fiabe per me, io vorrei leggere cose diverse, non so neanche quanti e quali libri ci sono al mondo, per di più invece vorrei proprio correre e vociare come sento fanno i ragazzi della mia età".
Così, in questo odio fosco verso se stesso e la propria disgrazia, si apriva il suo cuore alla vita.
Era una stupenda giornata di aprile e lui se ne stava seduto come sempre nelle giornate più calde, contro il muro di casa. Stava sentendo il suo cuore parlare le solite parole di odio e di disperazione, quando in quel frastuono minaccioso sentì un passero cinguettare da un vicino ramo. Seguì con l'udito il suono e realizzò che doveva essere piccino e a pochi passi e sui rami più bassi, che ben distintamente lo ascoltava. Si lasciò rapire da quel canto inconsueto e dolce e chiuse la porta al cuore, foriero di tutti quei pensieri. Aprì tutto se stesso a quel canto dolce, a quel suono che sembrava più armonioso dell'organo che sempre sentiva in chiesa.
Non seppe come e quanto tempo passò perché d'un tratto, come se avesse dormito, si destò al nuovo rumore che lo distrasse ed era il rumore di un carro che passava sulla strada. Gli veniva appresso un contadino che bestemmiava a gran voce la sua sorte.
Aprì spaventato il ragazzo la porta al proprio cuore che gli era sembrato per un lungo tempo d'esser fuggito da sé, uscito da se stesso e in un mondo strano davvero d'essere finito. Aprì la porta al cuore per riprendere le antiche fantasie e gli antichi lamenti e le proprie bestemmie che gli ricordavano tanto quelle dell'uomo del carro, ma non riusciva a sentire altro che quell'uccello cantare e cantare.
Si spaventò e si drizzò come ad essere più attento, e si toccò anche il volto e le mani per sentire se ancora fossero vivi poiché sentiva solo più cantare e cantare quell'uccello. Allora corse in avanti come a fuggire da quella maledizione, da quell'incantesimo e battè la testa contro l'albero su cui era l'uccello. Volò via questo spaventato e zitto. E tornò d'un tratto il silenzio.
"Che mi succede?" domandò il ragazzo.
E sentì il cuore rispondere con calma:
"Hai sognato d'essere un uccello che cantava e così io ho seguito il tuo sogno, ché sempre il cuore segue i sogni degli uomini".
"E prima?" chiese il ragazzo.
"Prima sognavi e pretendevi d'essere un ragazzino sfortunato e triste e assai adirato con se stesso e con la vita. Volevi essere la maledizione di te stesso ed io con te maledicevo."
"Come - disse il ragazzo - il cuore forse lo comando io?"
"No non è proprio così, che il cuore certo non ti appartiene, ma tu puoi riempirlo a comando di cosa vuoi, puoi tu farlo adirare ed egli s'adira o lasciarlo nella pace ed allora così sarà".
"Ma io credevo il contrario e che fossi tu a parlarmi con tutto quell'odio nel buio dei miei giorni".
"Davvero hai potuto credere questo, e perché?"
"Perché le parole e l'impeto mi sembrava proprio di lì provenissero e sgorgassero".
"Non è affatto così - riprese il cuore - che il cuore è il centro del divino e mai da tali pensieri può essere colpito, ma l'uomo che nella propria mente ripone tutta la fiducia, agita questa in mille congetture e organizza con essa mille guai e mille pretese, che la mente mai sazia si lancia in tranelli sopraffini e sempre richiede e aizza l'intervento del cuore. Il cuore pare assecondare, poiché non può essendo puro amore opporre una lotta, come Cristo si lascia dai chiodi trapassare e trafiggere e sputare.
Ma il cuore non è corruttibile e resta solo uno specchio fedele di ciò che accade nella mente dell'uomo, cosicché questi guardandosi anche nelle sue profonde meditazioni, il cuore, non s'accorge dell'inganno e vi vede riflesso tutto il proprio volere, il proprio piacere e il proprio entusiasmo e le proprie brame, e dunque pensa che veramente lì tutte quelle cose risiedano, come tu hai creduto lì risedesse tutto quell'odio. Così ognuno piange di se stesso e pregando e infliggendosi dure penitenze, cerca di "mutare il cuore".
Sciocco e stolto colui che cade in questo tranello poiché non sa che il cuore è uno, puro e indivisibile e intoccabile e riflette solo, come uno specchio terso, ciò che la mente dell'uomo gli manda.
Che cosa mutare e chi?"

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